Cibi fermentati e Permacultura: chi sono questi sconosciuti
Nel fare rassegna stampa, a volte, ci si imbatte in indirizzi internet interessanti, come ad esempio il sito di questa Rivista tuorlomagazine.it che propone un articolo interessante su Carlo Nesler che apre alla conoscenza (o all’approfondimento) del mondo della fermentazione e dei suoi collegamenti con la Permacultura una scienza legata all’alimentazione, estranea ai più. Leggiamo l’articolo di Edoardo Celadon
Il lavoro di Carlo Nesler è uno di quei profondi, spirituali inni alla vita che non si incontrano frequentemente. La sua produzione trascende l’alta qualità, la genuinità e la tecnica, per assumere un significato molto più importante.
La realtà della sua incantevole CibOfficina, immersa nel verde viterbese, è la perfetta riflessione dell’anima di Nesler: gentile, di spessore e consapevole.
Il suo innovativo approccio al mondo delle fermentazioni lo ha portato ad essere il consigliere di numerosissimi chef e professionisti blasonati, nonché a diventare punto di riferimento per appassionati di tutto il mondo.
Perché proprio le fermentazioni?
Quando ero ancora un bambino mi trovavo inconsapevolmente affascinato da questi processi “magici”, dove gli ingredienti si trasformavano in qualcosa di gustoso senza essere apparentemente toccati, come nel caso dello yogurt o dei crauti.
Durante tutta la mia vita ho poi studiato, al di fuori delle scuole frequentate, questi processi che finalmente trovavano qualche spiegazione.
Ma forse il momento fondante del mio passaggio ufficiale alla disciplina, è stato il corso di permacultura con Saviana Parodi: qui ho compreso la mia passione, ho dato un nome a quella “cosa” che avevo dentro. Da quel momento è nata una primavera di studi, letture ed approfondimenti che hanno arricchito il mio bagaglio di anno in anno. Testi storici, scientifici, antichi e moderni: tutto era oro per me.
Il mondo dei batteri è affascinante e molto poetico, se vogliamo. Questi rappresentano l’aspetto comune più forte tra tutti gli esseri viventi, sono alla base dell’evoluzione e abitano il nostro corpo, consentendoci la vita e definendo il nostro esistere in relazione col mondo esterno. L’idea di essere collegato agli altri esseri viventi passati e futuri, a prescindere da ideologie e sovrastrutture, risulta per me nel valore assoluto di esistenza, quasi divino.
Fermentati e salute. In che rapporto sono?
L’atto della fermentazione è dedito non solo alla conservazione degli alimenti, ma sopratutto alla trasformazione di ingredienti in prodotti facilmente assimilabili e nutrienti. Si fermenta da sempre, in qualche modo, per necessità. Ci sono molti modi in cui questi cibi diventano funzionali ed utili alla nostra salute. Pensiamo all’azione di “digestione” e trasformazione che i batteri svolgono durante il processo su determinati alimenti non digeribili o addirittura dannosi: un vero e proprio lavoro di “messa in sicurezza” del prodotto osservabile, ad esempio, nell’ eliminazione della tossicità (anche mortale) della tapioca o nella realizzazione di un pane vivo e ben fermentato. O ancora, guardiamo all’azione probiotica di alcuni batteri che sono in grado di sopravvivere alla barriera acida dello stomaco e continuare a vivere nel nostro corpo aumentandone la biodiversità e, senza entrare in tecnicismi, facendoci vivere essenzialmente meglio. Tutto questo avviene in assenza di pastorizzazione, ovvero in presenza di vita.
Gli scaffali della grande distribuzione sono pieni di prodotti dal packaging colorato, per nascondere la morte del prodotto contenuto. Dovremmo riportare l’organismo vitale sulle nostre tavole, sarebbe un risveglio “primordiale”.
Ci parleresti dei tuoi prodotti e delle materie prime che utilizzi?
Nascere e vivere in un paese denso di storia ha sempre risvolti positivi e negativi. Per me, questo si traduce in uno stimolo a rompere quelle regole codificate che conosco ed ampliare il raggio di possibilità: non ho un background a supporto, ma ho più libertà. Perciò, mi sono guardato attorno: dove mi trovo? Mi trovo in una terra fortunata, circondato da campi biologici e naturali. Come potrei essere sostenibile se utilizzassi la soia, magari importata da paesi poveri dove viene oppressa da sostanze chimiche spruzzate direttamente con aerei e dove rovina, forse per sempre, la biodiversità? Diventa, dunque, obbligo morale e virtù creare lavorazioni a base di ceci, fave o lenticchie: tutti auto-prodotti o ottenuti da contadini rispettosi della Terra e degli esseri umani. Ne voglio sempre verificare la provenienza, la presenza di trattamenti e il sapore. Faccio un lavoro minuzioso ma soddisfacente. E così funziona la mia produzione. È artigianale, piccola, curata e colma di energia. Ricicliamo anche tutti gli avanzi delle salse fermentate e creiamo polveri saporite molto particolari, affiancandole ad una produzione più “canonica”: kombucha mediterranea, frutta, verdura ed appunto shoyu e miso. L’inserimento di questi legumi genera profili gustativi particolarissimi, rotondi e più aggraziati rispetto alla soia. Alla fine non faccio altro che replicare i miei esperimenti giovanili con coscienza, qualità e sicurezza alimentare.
Non riesco a fare a meno di capire cosa sto mangiando, quale varietà di vegetale sto utilizzando: dovrei forse fidarmi dell’industria? Di chi mi sto fidando? Perciò chiamo i miei prodotti “Cibi Vivi”, perché lo sono davvero, letteralmente e metaforicamente.
Periodo interessante per la fermentazione, giusto?
Oggigiorno mi sembra che si sfrutti molto il termine “fermentato” per attirare e vendere, senza conoscere a fondo. Vi stupireste di quanti sedicenti “esperti” lavorano in modo errato: basterebbe indagare, non accontentarsi. Quindi, se magari l’attenzione mediatica porta interesse, aumentano anche le chance di disinformazione.
Si può potenzialmente fermentare tutto, ma dobbiamo confrontarci con il risultato finale, sia a livello industriale che in alta cucina, accettando talvolta di aver creato una lavorazione innovativa e “che stupisce” ma poco buona, e dunque escluderla.
In questo ambito si parla del metodo “del non agire”, ovvero di quell’atteggiamento che porta ad escludere il proprio ego e lasciare che il processo agisca da solo, esista quasi senza di te. Torniamo di nuovo alla capacità di attendere ed individuare, in base all’esperienza, il momento giusto per interrompere. Quasi come quando affermiamo che l’osservatore crea ed influenza la materia. Così diventa fondamentale il lavorare attorno alle stagioni, senza condizionare artificialmente il clima di conservazione o accelerare i processi ai fini produttivi. Certo, il prodotto finale sarà sempre leggermente diverso, ma non è l’imperfezione che ti fa innamorare?
Il tempo, nella sua lenta velocità, scandisce la vita sana, reale. Non si può barare ed ingannarlo: il prodotto è di qualità nettamente inferiore e si spreca troppa energia inutilmente; tutto al solo fine di standardizzare ed ottimizzare. Ma è la differenza tra sesso ed amore, tra il ridere da soli o in compagnia. La natura non ammette scorciatoie.
Nesler è una fonte incredibile di conoscenza, di stimolo. Le chiacchierate si protraggono per ore senza il minimo accenno all noia. È affascinante come dietro a degli apparentemente semplici prodotti si celi un pensiero tanto profondo ed illuminato.
L’essere vivi è diverso dal sopravvivere, l’essere “umani” consapevoli ci differenzia dalle altre forme di vita che, ad ogni modo, compongono l’ecosistema col quale ci relazioniamo. La nostra forza sta proprio nella possibilità di andare oltre al comfort, ai bisogni istintivi e alle pulsioni per vederci in grado di curare il pianeta anche attraverso la cura di noi stessi.
Fermentare, per Carlo Nesler, è atto culturale che costringe alla ripagante fatica di scegliere un buon prodotto, curarlo, attendere e godere dello sforzo.
Ci siamo assoggettati ed un sistema inibitorio che non ci fornisce informazioni, ci semplifica le cose “come ai bambini” (dice Nesler). Accettiamo di consumare ad occhi chiusi pur di non doverci interessare, quasi ci facesse male. Stiamo costruendo un mondo comodo, grigio e pericoloso. Codificato e senza sorprese, ma orribilmente deprimente.
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