“Identità Milano”: un turbinio di idee golose!
Prima giornata, prime intense emozioni a "Identità Golose" 2011: pasta e riso, pasticceria italiana, segni e gesti dal mondo, il mondo che ci circonda e il mondo a cui si deve guardare per non isolarsi. No tradizione, no innovazione per partito preso o per mettere dei cartellini a uno e consumo di chi non sa di suo.
Cucina – Pasticceria – Artigianalità – Vita
Lunedì, 31 gennaio seconda giornata.
Vivrà ancora di segni e di testi, antichi e moderni, ma anche di birra e poi di mieli in cucina, fuori dai loro contesti naturali. Piaccia o non piaccia, ma la terra si muove e dovrebbero fare altrettanto anche le teste di tutti.
E domani il gran finale, anche con un momento tra una mattina nel segno del Piemonte e pomeriggio tutto dolce in Auditorium nel segno dei Cavalieri, Alajmo, Bottura, Perbellini, Niederkofler…
Paolo Marchi
Testi di Samuele Amadori, Alessandra Meldolesi, Carlo Passera, Andrea Pendin, Cinzia Piatti, Gabriele Zanatta. Foto in Auditorium e Sala Blu di Alessandro Castiglioni, Sala Bianca Alfredo Chiarappa.
Ceroni, Marchi e il fermento della gastronomia
La settima edizione di Identità Golose parte con Claudio Ceroni che sottolinea l'importanza assunta dal congresso negli anni: “Nel 2010 il concept congressuale è stato declinato in diverse forme, con appuntamenti nazionali e all'estero. Ringrazio gli sponsor che continuano a investire in questo evento con continuità, segno di valore dello stesso. Saluto l'incontro con WineLove, con cui condividiamo l'obiettivo di portare la qualità al grande pubblico. E di aiutare a comprendere i cambiamenti nel panorama enogastronomico”.
Paolo Marchi sale sul palco e ci presenta il tema dell'edizione, “Il lusso della semplicità, i segni e i gesti”, cioè l’evoluzione delle cose note o quello che resta immutato dall’innovazione. Sottolineando i temi di pizza, pasta, pane e pasticceria come parte fondamentale dei lavori , Paolo Marchi ha attirato l’attenzione sul made in Italy: “E’ essenziale considerare il cuoco al pari di un architetto o di un imprenditore: chi emerge lo fa per le sue idee, la sua costanza, la sua capacità. Fare sistema diventa necessario perché le situazioni felici mostrate al congresso non sono affidate al caso come isole sparse nell’oceano della ristorazione, ma sono la fotografia di una realtà che unisce tutti i nostri protagonisti. Professionisti con idee diverse, uniti dagli stessi valori”. (L'intervento integrale di Paolo Marchi è su Youtube, grazie alla redazione di Newsfood.com).
Ci.Pi.
Il delitto imperfetto dei fratelli Alajmo
Aprono la giornata i fratelli Alajmo, con Massimiliano carico e loquace sul palco (in foto con la figlia), e ci offrono il loro consueto spunto di riflessione e l'esecuzione in diretta del Risotto all'Occhio Nero, cioè al nero di seppia con l'utilizzo dell'occhio, parte del capo della seppia normalmente ignorata. Prosegue, insomma, il lavoro fatto con In.gredienti, concentrandosi sulla fluidità e sulla scorrevolezza che non possono essere trattenuti in quanto percorso naturale della materia, lavoro che oggi porta Massimiliano Alajmo a cercare di ritrovare le note lattiche presenti in un piatto ma senza utilizzare direttamente il latte.
Mentre elaborano il piatto, che utilizza anice stellato nella cottura in coccio e la preparazione di un ragù lavorato con salsa di soia, acqua e alga kombu per portare l' intensità del fondo marino e ignora il burro sostituito dall'olio, Raffaele ci parla dell'intenzione di fare un gesto e lasciare un segno, ispirandosi al tema di questa edizione del congresso, nota portante che ha caratterizzato la produzione meta-cinematografica. La proiezione inizia con un prologo ironico, in cui Bob Noto si traveste dal più famoso regista horror (il cui cognome per assonanza ci porta a EachCook) che presenta un film imperniato sul delitto di un cuoco; prosegue con il chiacchiericcio di fondo degli addetti ai lavori, gossip e notizie rubate di chi si chiede come sia morto l'ipotetico famoso chef qui rappresentato e che ci mostra la spettacolarizzazione della cucina che allontana dall’essenza. E termina con le riprese dentro al ristorante, andando a ritroso nell’idea che caratterizza il lavoro dei due fratelli padovani. Emergono allora i simboli della casa, dell'albero, del fiore e di tutti quegli elementi ricorrenti nei disegni dei bambini, che tradotti da simboli a significati ci conducono e ci spiegano lo sviluppo del lavoro degli Alajmo, le idee che precedono e si trasformano nella modernità della loro cucina, dove del superfluo non resta nulla.
Ci.Pi.
La fabbrica delle emozioni di Josean Alija
Unico spagnolo sul palco, Josean Martinez Alija continua a portare avanti la sua ricerca cucinaria intimista. Un’avanguardia da camera, con il silenziometro acceso. I piatti migliori sono i più semplici, ma i più complessi dal punto di vista intellettuale. Non l’ha detto il sottrazionista Gualtiero Marchesi ma Escoffier. Prodotti (di valore gastronomico piuttosto che economico) e riflessione, edonismo e salute: al Guggenheim gli ossimori svaporano. Sulla pista dell’essenza della materia e della vita nelle pieghe delle testure, del magico senso della scoperta e dell’avventura che si acquattano in ogni retrogusto. La cipolla è emblematica: mangiando una verdura, ne restano pezzetti dolci sulla forchetta. Questa emozione è la scintilla di un piatto. Perché una cucina senza odori è priva di memoria. Oppure la patata cotta per 3 ore sottovuoto nell’olio, tecnica che esalta la naturale gelatinosità dovuta alla pectina. Perché nell’universo vegetale il benessere, decifrato dall’intelligenza del corpo, sposa il divertimento alla Fregoli. E il pomodoro, prodotto versatile che connota la mediterraneità ed esalta col suo umami una pletora di compagni, dopo avere assaltato la Bastiglia della cucina rinascimentale ha ancora dinamite da vendere. Inscena un soffritto alla moda di Bilbao, trasposto nell’immaginario. Il pelato, passato in acqua e calce, raddoppia la sua testura indurendosi al’esterno; cotto in uno sciroppo di acqua e zucchero viene farcito con diverse salse di pomodori surmaturi aromatizzati a freddo con varie erbe. Prima di essere irrorato di acqua di pomodoro, aromatizzata ai capperi e addensata alla Xantana. Per finire la gemma di riso, 3% dei chicchi ricchissima di minerali e nutrienti, che sfata il cliché della neutralità degli amidi. L’ha strappata a uno scettico Rondolino per mettere a punto l’evoluzione del risotto, che sfocia nel paradosso del primitivismo. Gemme e latte di gemma, dal sapore di noce, a sostituire i grassi; più baccelli che circonfondono di suggestioni aurorali una cucina vergine. Essenza, purezza, nascita, vita.
A.M.
Naoko Aoki, giappo-milanese al cento per cento
Scende il momento del premio Identità vincenti a Milano, consegnato dalle mani di Alfredo Zini, vicepresidente Fipe e presidente dei Ristoratori di Milano, a Naoko Aoki, proprietaria da anni del ristorante giapponese Osaka di Milano e “signora dolcissima”, interviene Paolo Marchi. “Naoko”, spiega Marchi, “ha vinto la sua sfida ben lontana da casa, mettendo in piedi un’autentica realtà di successo, autentica perché a Milano ci sono 200 ristoranti giapponesi ma solo 20 di loro sono gestiti da sol levantini”. Con i colleghi di Higuma e Poporoya la signora ha fondato l’associazione I love Japan. Ecco perché la premiata ci tiene a convidere: “grazie per il premio, che ritiro idealmente assieme a tutti i cuochi della ristorazione giapponese d’Italia”.
Mangiare in dialetto: il cibo di strada di Sultano
Ciccio Sultano vuole lavorare sul cibo di strada e trasferirlo nei suoi piatti. Per questo sale sul palco accompagnato da Vincenzo Cascone per presentarci il video che hanno realizzato dopo la Variante Sultano. Vediamo Mangiare in dialetto, un filmato in cui conosciamo una Palermo dove il mangiuniare, cioè mangiare il cibo di strada, è al centro dell'obiettivo della videocamera.
Il filmato dura 15 minuti e ci porta a spasso nel capoluogo siciliano, dove venditori ambulanti e piccole botteghe sono gli attori principali, dove mangiare per strada comporta lo sguardo come mezzo di comunicazione immediato con chi il cibo ce lo porge, si mangia in piedi come chi sta lavorando, le distanze si accorciano e le differenze svaniscono; mangiare per strada è codice condiviso da chi mangia, un modo di mangiare diverso dal sedersi a tavola per tempi, modalità, materie prime. Ciccio rivive nelle sue ricette la memoria delle sue incursioni ai mercati cittadini e tutto quello che comporta lo stare in mezzo alla gente comune che mangia per strada, e ci accompagna nella “Passeggiata in Pescheria”, dove la trippa dapprima sbollentata viene passata alla piastra allo stesso modo del polipo e dei funghi, abbracciati dal ristretto di brodo di pollo e incoronato con i ricci. Gioca poi con il “Disagio della lumaca”, dove la cicala di mare è sovrapposta dalla lumaca ripassata in padella; e chiude con il “Caldume”, in cui le parti meno utilizzate del vitello sono lavorate con sciroppo di bergamotto e cioccolato amaro, ripassate in brodo e erbette e messe sottovuoto, per venire poi successivamente condite con mosto e soia, quindi caramellate e sistemate nei piattini che compongono la ricetta insieme alla polpetta di melanzana che ci ricorda la sua Ragusa.
Ci.Pi.
I (sette) sensi di Fusto per il dessert
Dolce o salato? La domanda sarebbe parsa impropria all’uomo medioevale, che amava la commistione tra sensazioni gustative. Dolce o salato, dunque? Identità Golose ieri in Sala Bianca ha operato una scelta netta, nella giornata dedicata ai dessert. O meglio, alla pasticceria italiana da ristorazione, settore a lungo trascurato, come ha spiegato Paolo Marchi introducendo le lezioni. Fino a non molti anni fa anche locali di livello al termine di un pasto di classe proponevano spesso dolci standardizzati, magari “subappaltati” a laboratori esterni, semi-industriali se non industriali tout court. Il malcostume è scomparso, ma il tema del “lato b” a fine pasto – ha concluso Marchi – ha enormi potenzialità di sviluppo. Tra coloro che più degli altri si è speso per la causa è Gianluca Fusto, anello di congiunzione vivente tra fornello e alambicco declinati al mondo dolce: la sua è una relazione che rimanda alla scientificità in cucina, lessico e concetti sono sviluppati in un ventennio di studio, creazioni, lezioni prese e date – ad esempio come unico professore straniero alla Valrhona di Tain l’Hermitage, dove lavorava gomito a gomito con chimici, fisici e ingegneri alimentari. “I sette sensi: per conoscere e per conoscersi”, questo il tema del suo intervento: ovvero lo chef pasticcere che gestisce (deve saper gestire) con rigore i riferimenti sensoriali (cinque diretti: profumo, sapore, aroma, vista e sensazione uditiva; due indiretti: sensibilità termica e tattile della mucosa boccale, sensazione chimica indifferenziata – piccante, mentolato, tannico…) per la creazione delle proprie opere. La conclusione è il riflesso dell’impostazione di Fusto e persino della sua natura, al contempo bonaria e iper-tecnica: un dessert-composizione che abbina goduriosamente stroisel di grué, caramello Orizaba, biscotto di cioccolato, crema di mandorla, gelatina di ciliegie, ganache montata Araguani, sorbetto di mascarpone e vaniglia.
Ca.Pa.
Simone Padoan e il lato dolce della pizza
È sempre un piacere ascoltare Simone Padoan (in foto con Livia Chiriotti, presentatrice della giornata in Sala Bianca), che affascina quando parla del suo progetto pizza d’autore a 360° a i Tigli di San Bonifacio. Per rendere grande un prodotto massificato al pari di un fast food occorre partire intanto dalle materie prime, ma a volte anche questo non è sufficiente. Per questo bisogna farlo diventare un’eccezione, e dargli quel valore che solo un grande chef può regalare, con una continuità mai banale. Ecco allora il viaggio sinestetico tra i vari abbinamenti, semplici e rassicuranti ma che invogliano a osare, a spassarsela con gioia anche nel mondo del dolce-salato. La semplicità e la naturalità devono essere elementi imprescindibili. Una cultura gastronomica trasferita a due proposte, a partire da una base focaccia con le farine del Mulino Quaglia, ispirata a classiche ricette dolci della cucina italiana.
La prima focaccia a lievito naturale esprime il massimo della semplicità. Una riduzione alla birra bianca Isaac con note agrumate come fondo del piatto, e una focaccia con Petra 9 farcita con una quenelle di mozzarella di bufala, una marmellatina di pompelmo rosa, un datterino caramellato al miele e una fogliolina di timo limone. Una bella acidità, una dolcezza legata splendidamente alla nota del lievitato e del pomodorino che fanno da cornice a un piatto confortante, da piacevole inizio giornata. La seconda è una focaccia dolce, un fugassa di eco veneta e un po’ emiliana con una splendida lievitazione di farina Petra 3. Un pandolce con uvetta, noci, mandorle e caramello che c’invoglia a inzupparlo in un bel vino rosso, come da tradizione.
A.P.
Pasta e uovo: i dessert border-line di Rambaldi
“Un cuoco che pensa dolce”: Giuseppe Rambaldi sta dalla parte di qua – dei dessert – ma viene dall’altra sponda, quella tutta salata. Chef pâtissier al Combal.Zero di Rivoli (To), nasce professionalmente al di fuori dell’universo zuccherino e si trova dunque a proprio agio nelle incursioni da un pianeta sensoriale all’altro – tanto per proseguire con le metafore astronomiche. Non sorprenda, dunque, che l’ecletticità si trasferisce negli ingredienti base scelti per le preparazioni raccontate a Identità Golose: che poi sono la pasta e l’uovo. Ne valorizza la versatilità naturale, ideando per iniziare un dessert “Soufflé di pasta”: un monograno viene cotto classicamente, quindi scotto e ridotto a sorta di pappetta che farà da legante al posto della besciamella tipica della realtà salata. Il tocco dolce viene poi regalato dall’albume montato a neve e zucchero, il soufflé così ottenuto è infine servito con scorze d’arancia caramellate e una spuma d’acero. Seconda incursione da Indiana Jones del gusto: l’uovo, appunto, risposta di pasticceria al Cyber egg di Davide Scabin. Il tuorlo viene lasciato per alcune ore in immersione in uno sciroppo di zucchero, che vi crea una sorta di glassa superficiale. La rimanente parte liquida interna viene aspirata e sostituita con panna e vaniglia, così da ottenere una crema inglese sotto mentite spoglie da appoggiare poi su un disco ghiacciato (simil-albume) ottenuto congelando succo di limone, di lime e sciroppo. L’immaginifico uovo al tegamino che ne deriva viene arricchito di mirtilli, lamponi, alchechengi, gelatina di lampone, gelatina d’acqua tonica, menta, persino qualche grano di digestivo effervescente… Composizione finita? No,c’è la sorpresa finale: al tavolo si versa sul tutto un po’ d’acqua gassata. Rambaldi voleva chiamare il dessert H2O, Scabin ha insistito per “Fusione a freddo”, è una macedonia-dessert di piacevolissima freschezza.
Ca.Pa.
Per una dilatazione degli orizzonti della pasta
Pasta, fortissimamente pasta. Come l’anno scorso, con il fondamentale apporto di Monograno Felicetti, è stata dedicata un'intera giornata alle nuove tendenze del grano duro – e delle altre varietà di pasta – in cucina, sulla quale torneremo presto e più diffusamente con una newsletter di Identità di Pasta tutta dedicata. Possiamo sinteticamente anticipare che l’apertura delle danze l'ha data Elio Sironi che, in barba alle convenzioni, ha regalato la pasta da spalmare, una bomba di carboidrati perfetta per colazione. Carlo Cracco e Matteo Baronetto (in foto, il secondo è in primo piano) hanno deciso di introdurre la pasta a un ingrediente nuovo, esotico. La mastica, una resina originaria di Grecia e Turchia, amara e curativa. Perfetta con i primi a base di funghi e di salicornia. Sempre che ci abbia messo le mani Cracco, si intende. Antonello Colonna ha svelato tutti i segreti della cacio e pepe, Alfio Ghezzi ha stupito con i suoi canederli mezzi sardi, mezzi trentini. Il pugliese Michele Rotondo ha scelto di esplorare il mare, in tutte le sue declinazioni “pasterecce”. Chiusura con il botto: prima il pasticcere Gianluca Fusto ha regalato un excursus su come la pasta può diventare un dolce perfetto, con zucca, mandorle e zafferano. Fuochi d'artificio con Davide Scabin, un doppiogiochista della pasta: per lo chef del Combal Zero, infatti, la pasta può anche essere semplicemente (si fa per dire) un primo.
S.A.
Il futuro di sempre di Davide Scabin
Un po’ di tutto, ritornando al futuro: un tema impegnativo per Davide Scabin. Che chiosa ironico: “la pasta può essere anche un primo”. Dopo tre anni di pausa, architetture naturali, gusto e sostanza sono tornati alla ribalta. In sintonia perfetta con una ricerca approfondita in solitudine al Combal, stella polare di una cucina che avanza sui binari del gusto italiano come l’angelo di Benjamin, le spalle al futuro e le mani a rovistare nella tradizione, arretramento che avanza con il beneficio della visione laterale e dell’allertamento dei sensi conferito dal pericolo. Ecco allora la matrioska di Tropea: ovvero come usare una cipolla. Un millefoglie naturale, scottato con aceto, confettato, farcito leggermente alla liquirizia e al caviale (non per nobilitare, perché il sangue è già blu) e servito sulla gelatina della sua acqua. La semplicità in persona, nelle sue consistenze naturali e nell’originalità del gusto. Poi la petite marmite dell’appassionato di brodo, inno alle frattaglie riscoperte: cervella con burro e salvia, animella scottata e rosolata, lingua non sottovuoto ma salmistrata, foie gras crudo, asparagi thailandesi e funghi shitaki per l’amaro, più il cavolo cinese per bilanciare la sostanza con l’acquosità e un’innaffiatura di dashi, elegante brodo espresso. La patata orizzontale consiste di 6 patate elaborate per valorizzare le singolarità: parmentier, carbone di patate, gnocco di patate, violette cruda, purè freddo e bucce fritte. Per finire gli spaghetti-pizza margherita, reidratati a 40°C e cotti in infusione, poi composti in una stuoia bicolore e confezionati sottovuoto per 4 giorni, con un condimento di pomodoro, basilico, cuore di burrata frullata, olio con aglio, peperoncino, acciuga, miele di erica e scorza di limone. Ricerche che hanno guadagnato a Giuseppe Rambaldi, autore di un’ingegneristica fusione a freddo, il premio per il pasticciere dell’anno dalle mani di Sara Peirone, responsabile marketing di Lavazza.
A.M.
Sat Bains, il Robin Hood degli ingredienti poveri
Cercare di costruire il piatto come viene immaginato e restituirlo al cliente nella sua idea originale è fondamentale per Sat Bains (in foto con Francesca Barberini), lo chef di Nottingham salito sul palco con ricette che ci portano alla sua idea della campagna inglese. Partiamo con lo Sgombro con barbabietola, rafano e lardo di Colonnata, quest’ultimo presente come omaggio all’Italia: l’idea è di lavorare su ingredienti più semplici, preservando la sensazione del grasso del pesce e l’acidità che sostiene la struttura. A seguire la guancia di manzo brasata nella birra Guinness, ostriche e alghe, dove la carne è ingrediente principe nelle abitudini culinarie inglesi. Originario del Punjab, Sat Bains sceglie Nottingham per farne il suo regno contro la tendenza dei colleghi di spostarsi a lavorare nella metropoli londinese, la epica Nottingham in cui ha costruito un punto di riferimento per gli appassionati. Ritornando sul palco di Identità Golose in grande forma, Sat Bains ha costruito l’intervento sugli ingredienti e le tradizioni britanniche, cercando di “celebrare gli animali e la selvaggina e reinventando qualcosa che si è perso, il sapore di Nottingham!”. Muovendosi con la praticità e la sintesi che lo contraddistinguono, ha applicato la sua legge delle tre T (Texture, Taste and Temperature) chiudendo l’intervento con la spalla di montone, carne di forte sapore perlopiù dimenticata dal pubblico inglese, che passa una frollatura di ventiquattro giorni, e arriva al cliente con capperi e olio di cipolla.
Ci.Pi.
Oggi, il tempo dello scandalo di Lopriore
“Oggi” è il nuovo percorso intrapreso alla Certosa di Maggiano. Che vede il kairos anteposto alla ristorazione, dal lusso della semplicità all’eleganza del gesto, intesa come perno dell’ospitalità che instaura la festa. La carta importante e articolata ha ceduto il passo al menu oggi, espressione personale incentrata sul gesto rivolto all’ospite; mentre per il futuro si prospettano carte on demand, imbastite sui desiderata quotidiani degli ospiti. In attesa della destrutturazione totale, sul palco sono sfilati due piatti semplicissimi, dove i gesti perdono in perfezione per acquistare in fragranza e sincerità. Per staccare la dolcezza della colazione dalla sapidità del pranzo, alle 11, quando si sforna, un pezzo di pane strappato, completo di crosta, viene guarnito con un ricciolo di burro e un lampone. La freschezza assoluta per trasmettere un pensiero, che oltrepassa il concetto e la location al tavolo dilatandosi nell’esperienza totale. Poi la sensazione della materia: carni non facili per il loro sapore, ad esempio la capra, di solito ingentilita dalle lunghe cotture. L’animale adulto, dalla struttura importante, viene onorato grazie alla tecnica dello shabu shabu, che ne salvaguarda l’espressività, poiché il cibo deve parlare da solo. La marinata espressa è un’infusione di rose e tè bianco centrifugata, in modo da esaltare tannini e spigolosità, senza rischi di ossidazione o pregiudizi per la freschezza dell’ingrediente. La sella di capra è racchiusa fra gocce di marinata e sormontata da foglie secche in polvere al posto del pepe, sale e foglie rosse per prolungare il sapore nella sfera visiva. L’ospite si sostituisce al cuoco immergendo le fettine nel liquido bollente, con il brodo al tè da bere alla fine. Rosa e capra, nel contrasto fra gentilezza e intensità, agguantano l’armonia attraverso un gradino che fa skandalon, cioè inciampo alla routine, e rovescia la potenza in eleganza con una mossa di judo. Per questo Enrico Piazza di Piazza ha premiato cotanta effervescenza con il premio Creatività dell’anno (foto).
A.M.
Mehmet Gürs: la Turchia che non c’era
Il primo chef dalla Turchia che sale sul palco di Identità Golose ci colpisce per la lucidità delle idee: mentre ci presenta il video che lo accompagna, ci parla del suo lavoro, sottolineando che “non è una cucina turca la mia, mi sforzo di osservare culture e tecniche di cucina usate qui per decenni e le fondo con il mio dna nordico”, servendosi della tradizione anatolica per portarla nella realtà odierna di Istanbul. Se il pubblico appare ancora reticente quando si tratta di riconoscere la cucina turca, Mehmet mostra la solidità del suo lavoro, perfettamente riconoscibile e radicata nella sua nazione. La spalla di agnello che ci presenta porta via metà del tempo dell’intervento, vagando tra istruzioni di esecuzione e una lezione sulla cultura anatolica: prepara un riso pilaf di Bulgur essiccato dal sapore affumicato, lavora il pestil di prugna e sciroppo di melograno, porta a termine il brodo di cottura dell’agnello con peperoncino mentre ci spiega la difficoltà di traghettare le ricette tradizionali nella modernità del suo Paese. Come un fiume in piena, ci racconta della Turchia e degli ingredienti che ama usare, di come costruisce un piatto, delle origini degli ingredienti e del suo impegno con GreenPeace contro lo spopolamento dei mari. Chiude passando ad un tipico dessert di zucca, marinandola per 24 ore in un’acqua di calce; la zucca assume così un aspetto quasi candito a cui Mehmet Gürs avvicina pistacchio trasformato in gelato e sesamo lavorato come uno sciroppo. Se questo è il nuovo volto della Turchia, non resta che correre a scoprirlo.
Ci.Pi.
Nuno Mendes: freestyle anglo-portoghese
Oriundo portoghese in servizio a Londra, Nuno Mendes sta traghettando il suo bagaglio prestigioso di tecniche e know how verso lidi sempre più informali: il background del Viajanteè la sua cifra culinaria, che trasporta l’ospite alla deriva del menu a sorpresa. Il loft project cha ha allestito è uno spazio a disposizione dei giovani cuochi meno noti in cerca di una zattera verso il successo, rudimentale tavolata convertita in “galleria” di food art. Sulla tavolozza del primo piatto sono rimasti i relitti sparsi di una bufera palatale: lingue di anatra confettate nello sciroppo, sedano rapa arrostito con olio e sale, salsifì spaellato, germogli di pino, latte all’olio di pino, sunny grass e nocciole… Dopo la tempesta, l’armonia. Poi la monografia del porro grigliato, da cui si prelevano i cuori, serviti con emulsione di cenere di porro, croccantini di pelle di pollo e pelle di latte, sorta di lenzuolo barocco dal panneggio cangiante: perché la physis ama celarsi, su questo Eraclito ha imboccato Heidegger. Infine funghi giapponesi inoki alla plancha sul rosmarino, letto aromatico per gli scampi e il lardo: nessuna tecnica invasiva, naturalismo, purezza, estetica ficcante e persino (così la chiama Nuno) “tradizione”.
A.M.
Inaki Aizpitarte: approdare alla cucina per esprimersi
Perché tutti vogliono andare da Inaki Aizpitarte allo Chateaubriand di Parigi? Forse per i prezzi contenuti rispetto alla qualità offerta, forse per l’aspetto cool del giovane chef, forse per la democraticità del locale gemello appena aperto a sei metri dal primo? Andrea Petrini, introducendolo sul palco, ci spiega qualcosa in più di questa stella parigina che da 5 anni ha dato il via a un cambiamento fondamentale nella scena ristorativa parigina. Il video di presentazione ci riempie occhi e orecchie dei protagonisti e dei particolari delle ricette di Inaki, il quale ci prepara ai piatti miniaturizzati che passeranno in sala. Studiati sulla proposta del suo ristorante, partono per il pubblico dei cuoricini di anatra scottata con semi e spezie, mentre sul palco continua la preparazione di un ceviche cucinato con scarti di pesce marinato con succo di lime e scaglie di pesce e lampone, da consumare classicamente molto fresco. Riproponendo uno dei suoi appetizer più noti, cioè i semi di mela spolverati con oro e retrogusto di cianuro (sì, cianuro), il cuoco di origine basca si sposta sui porri appena grigliati deglassati in un succo di calamari e con tuorlo coagulato spolverato di quinoa. Risultato dei suoi ricordi d’infanzia, Inaki spadella, poi, generosamente davanti al pubblico della pancetta affumicata e scalogno deglassato con vino rosso e ostriche passate sottovuoto con succo di cavolo rosso centrifugato. Chiude l’esibizione “Neige”, un dessert di dadi e sciroppo di mela e zucca butternut marinata in aceto di mango, con la sala ancora piena di spettatori che cercano di raggiungere il palco come nelle migliori performance musicali.
Ci.Pi.
La Lichtle tra ricerca, evoluzione e memoria
Dall’Alsazia a Roma per una perfetta simbiosi del gusto. L’anima mediterranea e transalpina di Antony Genovese de Il Pagliaccio capitolino ha trovato la propria perfetta corrispondenza in quella franco-tedesca di Marion Lichtle; l’affiatamento nella vita e nel lavoro ha consentito loro di tratteggiare al meglio la figura dello chef pâtissier – in questo caso al femminile – come necessario alter ego in cucina del protagonista principale, giacché la pasticceria da ristorazione è di sua natura complemento del precedente desinare salato, fine pasto dolce del tutto funzionale – senza inferiority complex – alle sapide portate che il commensale ha gustato poco prima. Qui l’interfaccia è assicurata, e così sia. A Identità Golose la Lichtle segue dunque la falsariga della sua attività quotidiana, presentando dapprima un pre-dessert che dovrà rinfrescare rispetto all’antipasto-primo-secondo che qui in Sala Bianca solo si teorizza. Dominano le note citriche: granita di limone allo zenzero con biscottino al finger lime, o caviar lime – essendo quest’ultimo uno strano agrume australiano (Citrus australasica) le cui vescicole quasi esplodono in bocca, liberando il loro particolare sapore acidulo del tutto simile al lime (offre il vantaggio che non perde, durante la lavorazione biscottata, la propria carica gustativa). L’evoluzione della “esperienza dessert” è un «dolce a sensazione», come spiega la Lichtle: un classico “semolino della nonna”, condito con salsa di clementine, accompagnato con insalata dello stesso agrume, gelato al miele e rosmarino e infine pinoli tostati nel miele (per dare una nota croccante) e poi passati nel cioccolato fondente (per il tono amaro). Si chiude con un petit four: ad accompagnare idealmente il caffè di fine pasto, una caramella mou con note di menta e ricopertura cioccolatosa, sorta di After Eight della memoria.
Ca.Pa.
Tatsuya Iwasaki: nome nipponico, gioie italiane
Metti un vero cuoco in simbiosi con il lato più trascurato di un ristorante, la pasticceria, e dagli libero sfogo: è creatività fusion che genera una vera bomba d’idee, perfettamente in sinergia con una tecno-emozionalità mai ostentata. Questa linearità con la cucina si vede e si sente nei piatti di Tatsuya Iwasaki, pasticcere a Gli Amici di Emanuele Scarello a Udine. Ecco che i contrasti tra dolce-salato e ingredienti propriamente legati alle portate precedenti a un dolce, sono per lui punto di partenza per la creazione di un dessert. La semplicità esplode in un dolce tipico del nord Italia, lo strudel. Tutte le componenti vengono riviste in un’ottica di leggerezza e precisione unica. Sul fondo del piatto, giace una zuppetta di mele cotte sottovuoto e al microonde con gocce di limone, frullata molto finemente. Per dare una continuità nella masticazione vengono fatte delle briciole di biscotto alle mandorle e aggiunti dei pinoli tostati e dell’uvetta alla grappa. La sensazione tattile è esaltata da un gelato alla grappa, che si sposa divinamente col tutto, e da una pasta phillo che sostituisce la classica sfoglia. Ma è in “Colazione all’italiana” che l’ammirazione del nipponico per il nostro paese tocca il vertice. Parte dall’idea di un classico uovo all’occhio di bue cotto al tegamino con pane abbrustolito a parte, per la gioia di fare la scarpetta. Ecco che il tuorlo d’uovo è simbolicamente rappresentato da una granita al mandarino e farina di mandorle ricoperta da una pellicola di gelatina, per permettere all’interno di sciogliersi; l’albume è ricreato da una spuma allo yogurt che dona freschezza e acidità. Completa una granita al rosmarino, un po’ di frutta secca tostata e il biscotto morbido di mandorla abbrustolito, per una continuità in bocca davvero sensazionale.
A.P.
Chicco Cerea: pasticceria e concettualità
È una cucina soggettiva quella dei fratelli Cerea di Da Vittorio a Bergamo, eppure soddisfa tutti i sensi, cerca di correlarsi a un concetto di pasticceria di fruibilità immediata, tagliato su misura per ogni laboratorio artigianale. Si fonda sulla semplicità del gusto e sulla riconoscibilità della materia prima, esalta l’ingrediente con un tecnicismo non esasperato.
Si parte da tre distinzioni necessarie: i dessert alle creme scrivono un capitolo a parte rispetto ai dessert alla frutta e al cioccolato e non si dovrebbe mai mescolare queste i tre fattori. La pasticceria al piatto deve essere semplice ma completa in tutte le parti gustative e di texture. Da questa idea nasce il primo dessert, piatto forte del ristorante, una finta mozzarella che parte dalla tipica pellicola che si forma quando si cucina a lungo il latte. All’interno della pellicola si mette una spuma al mascarpone, del gelato allo yogurt e delle amarene croccanti. Si richiude il tutto per formare la tipica sembianza di una mozzarella e si completa con le sensazioni acidule-dolci di una salsa alle amarene, dei pomodorini cotti in una bagna alla vaniglia e arance e delle foglioline di basilico. Il concetto di dessert al cioccolato parte invece dalla sfida geometrica del Cristallo di cioccolato, utilizzando tecniche di soffiaggio e di lavorazione dell’isomalt. In una base di crema al cioccolato e latte di mandorla viene adagiato un biscotto al cioccolato, con texture molto simili a una ganache; sopra al biscotto, una marmellata amara al mandarino e un gelato al caramello salato prolungano la sensazione amara-dolce. Un manto croccante di isomalt soffiato avvolge tutti gli ingredienti, per dare sensazioni croccanti indispensabili. Completa una spuma impalpabile ai quattro cioccolati e un po’ di polvere frizzy peta zeta, per una giocosità alla stato puro.
A.P.
La natura diventa dolce nei dessert di Aliberti
Gran finale in Sala Bianca con Franco Aliberti dal Vite di San Patrignano. La sua lezione è “Natural-mente dolce” (il trattino è di rigore) e rimanda dunque anche concettualmente alla naturalità degli oggetti-aromi-sapori chiamati in… tavola. Sono realizzazioni attraverso le quali Aliberti vuole suscitare emozione richiamando stimoli lontani, diremmo ancestrali. Lo chef risveglia tutti i sensi, presentando due piatti che coinvolgono elementi della natura evocativi come i sassi di fiume – la forza della pietra – e un rovere di 150 anni – il calore del legno antico. Servono da supporto, materiale e teorico insieme, ad altrettante proposte che sono esperienze «per trasformare la degustazione di un dessert in una fusione generativa di percezioni diverse», come spiega. Ecco quindi “Esplosione al cacao e canfora”: al di sopra del sasso, che poggia su erba vera con relativa suggestione olfattiva, c’è un “sasso” più piccolo, edibile, il quale deflagrerà in bocca rivelando sotto la scorza cioccolatosa un bombastico aroma forte-mentolato dovuto alle foglie di canfora (pianta mediterranea considerata perlopiù semplice anti-tarme) messe a infondere a freddo, il conseguente succo viene poi reso gelatinoso con acqua, zucchero e colla di pesce e infine fornito di un cuore al cacao. Ne nasce una sorta di After Eight “light”, come spiega lo chef, tutto senza panna. Stesso discorso – niente panna né latte – per il gelato-sorbetto che caratterizza il secondo dessert, “Sfoglia caramellata con percezioni di caffè, crema gelata all’acqua di mandorla e olio”. Dunque, la crema gelata s’ottiene con la semplice torchiatura di mandorle di Noto unite a ghiaccio e sciroppo: questo liquido viene unito all’olio extravergine per creare un’emulsione pronta per il pacojet e poi la mantecatura. La sfoglia caramellata, figlia di un doppio impasto con componente salata, poggia sul legno vivo di rovere e viene spennellata per cinque volte con caffè espresso.
Ca.Pa.