A Natale potremmo mangiare pesce coltivato in laboratorio
Aumenta l’interesse per le alternative culinarie a base di pesce derivato da biotecnologie dovuto in gran parte alla necessità di promuovere la sostenibilità della produzione ittica
Filetti di ricciola, in salsa, sashimi al salmone, e mille altre gustose ricette a disposizione senza dover per forza gettare in mare le reti e catturare milioni di pesci. La rivoluzione tecnologica della pescicoltura è in laboratorio ed è ormai pronta per arrivare sui nostri piatti, magari anche in occasione del Cenone di Natale.
L’attenzione per pesce e frutti di mare cresciuti in laboratorio è aumentata significativamente nelle ultime settimane, specialmente dopo l’annuncio dell’azienda BlueNalu, con sede a San Diego, che, grazie alla collaborazione con il distributore britannico di alimenti surgelati Nomad Foods, introdurrà in Europa una serie di alternative ittiche prodotte in laboratorio.
A un mese dalla vigilia di Natale, la rivista Nature affronta l’argomento, esplorando la possibilità che le tavole europee quest’anno si arricchiscano di pietanze e piatti di pesce a base di alternative realizzate in laboratorio.
A settembre, si legge sull’articolo, la società Avant Meats, con sede a Hong Kong, ha firmato un accordo con il Bioprocessing Technology Institute di Singapore per migliorare l’economia della produzione di pesce coltivato, mentre lo scorso giugno la società Wildtype ha aperto una sala di degustazione s San Francisco, proponendo salmone per sushi coltivato in laboratorio.
Queste attività riflettono il crescente interesse per le alternative culinarie a base di pesce derivato da biotecnologie, interesse dovuto in gran parte alla necessità di promuovere la sostenibilità della produzione ittica.
Circa la metà dei frutti di mare consumati a livello mondiale deriva infatti da acquacoltura, mentre in alcune specie di pesci catturati in natura si registrano concentrazioni preoccupanti di mercurio, microplastiche e inquinanti da contaminazione ambientale. L’impatto dei cambiamenti climatici ha inoltre influenzato la disponibilità degli stock al punto che la raccolta di frutti di mare in natura non può essere aumentata in modo sostenibile.
“È necessario individuare delle strategie per rispondere alla crescente domanda di questi prodotti – osserva Kevan Main, vicepresidente associato per la ricerca presso il Mote Marine Laboratory and Aquarium di Sarasota, in Florida – dobbiamo utilizzare nuovi approcci per affrontare queste sfide”.
I prodotti ittici a base di cellule, derivati da pesce comunemente consumato, come salmone e tonno, o crostacei, come gamberetti e granchi, non discendono direttamente da esseri viventi, per cui non prevedono l’abbattimento di animali.
La carne viene prodotta in laboratorio raccogliendo cellule da un campione prelevato da pesci o crostacei donatori, che vengono poi coltivate in un bioreattore. Il mix risultante contiene muscoli e cellule adipose e, secondo le dichiarazioni dei vertici delle società produttrici, ha un sapore simile alla controparte naturale, anche se è privo di spine, squame, bulbi oculari e tutti i vari fastidiosi scarti che caratterizzano i prodotti ittici acquistati in pescheria.
La strategia di coltivazione è già stata applicata e commercializzata nella realizzazione in vitro di altri tipi di alimenti, come carne di manzo, pollo e maiale. Dozzine di aziende stanno sviluppando proteine alternative artificiali.
Nel 2020 a Singapore è stata autorizzata la vendita del pollame di Eat Just. Per quanto riguarda la regolamentazione statunitense, riporta Nature, la Food and Drug Administration (FDA) gestirà la giurisdizione esclusiva sul commercio del pesce coltivato.
“Il processo di lavorazione di crostacei e frutti di mare risulta più complesso rispetto alla produzione di carne – afferma Reza Ovissipour, del Virginia Tech, specialista in sicurezza alimentare e agricoltura cellulare – perché ogni specie di pesce è caratterizzata da sapore, consistenza e linea cellulare specifica, per cui richiede un insieme unico di parametri da implementare nelle procedure di coltivazione”.
Per coltivare il pesce in laboratorio, gli scienziati raccolgono cellule staminali adulte o embrionali dalle specie di interesse, creando poi linee cellulari che si autorinnovano, stabili e in grado di differenziarsi in muscoli, grasso e tessuto connettivo. I ricercatori inizialmente coltivano le cellule in un unico strato aderente alla superficie di laboratorio.
Una combinazione di sostanze nutritive, glucosio, amminoacidi, peptidi, acidi grassi, vitamine, sali minerali, ormoni proteine ricombinanti e citochine favorisce la crescita delle coltivazioni, che, nello step successivo si sviluppano attraverso strutture tridimensionali e bioreattori.
“Ogni fase del processo presenta una serie di sfide – osserva Jennifer Lamy, a capo degli sforzi per i prodotti ittici alternativi del Good Food Institute – lo sviluppo delle linee cellulari, ad esempio, può richiedere gran parte del budget iniziale di ricerca e sviluppo”.
Per Wildtype, ad esempio, ci sono voluti tre anni per stabilire linee cellulari adeguate alla coltivazione di salmone adatto alla consumazione per il sushi. Alcuni consumatori si dichiarano scettici nei confronti della carne realizzata in laboratorio, ma secondo gli scienziati di Wildtype una maggiore consapevolezza sulla macellazione potrebbe contribuire al superamento di potenziali preconcetti a riguardo.
“Molte persone non si rendono conto delle modalità con cui vengono prodotti i frutti di mare e la carne che attualmente raggiungono le nostre tavole – sottolinea Justin Kolbeck, che ha co-fondato l’azienda con Aryé Elfenbein – le condizioni dei macelli sono piuttosto spiacevoli sia per i lavoratori che per gli animali, e le operazioni di acquacoltura non si svolgono in situazioni migliori. Credo che ultimamente si stia instaurando un meccanismo per cui i consumatori tendono a chiedere maggiore visibilità e trasparenza su ciò che mangiano. Questo potrebbe far luce sulla genuinità della carne e del pesce coltivato in laboratorio”.
Come gli altri competitor, Wildtype affronta la sfida di ampliare il proprio business in modo economicamente sostenibile. “Operare su una scala estremamente ampia – dichiara Ovissipour – implica l’adozione di attrezzature specifiche e la gestione di una serie di fattori che magari non emergerebbero a livelli meno industriali. Potrebbe essere necessaria una configurazione completamente diversa che richiederebbe un livello più elevato di ottimizzazione e modellazione”.
Indipendentemente dalla portata dell’operazione, il costo della produzione di proteine coltivate è significativamente più elevato rispetto alle alternative convenzionali. Di media sono infatti necessari circa 20 mila dollari per ogni chilogrammo coltivato, secondo le stime della società di consulenza CE Delft.
“L’industria biofarmaceutica è stata costruita sulla raccolta delle proteine prodotte dalle cellule e sull’eliminazione delle cellule – conclude Kolbeck – nel nostro sistema dobbiamo ribaltare la prospettiva: vogliamo imparare a concentrare grandi quantità di cellule mantenendole vitali per lo sviluppo di strutture tridimensionali”.