Dagli USA: in Europa ci vorrebbe “una nuova Belle époque”
Articolo pubblicato su: "The New York Times" New York il 6 marzo 2013
Per coinvolgere davvero i cittadini l’integrazione europea non dovrebbe basarsi sulla narrativa della ricostruzione del dopoguerra, ma sul cosmopolitismo e la diversità dell’Europa dell’inizio del ventesimo secolo.
Olivier Guez
Alla fine la Grecia non è fallita e l’Europa ha iniziato a respirare un po’ meglio. Ma non per molto. Gli irriducibili elettori italiani che hanno votato un miliardario eccentrico e un comico ci hanno subito rammentato quanto sia profondamente in crisi il continente. Nel frattempo, la Francia è praticamente sola in Mali, e il Regno Unito parla apertamente di abbandonare la nave europea. Questa non è solo una crisi della valuta europea, ma della sua stessa anima.
Se è mai esistita un’immagine prevalente di Europa unita, sta andando letteralmente in pezzi per mancanza di supporto da parte dei molti popoli che la compongono. Ciascuno di essi nutre risentimento o sospetto nei confronti dei suoi partner. Ma tutti soffrono del medesimo limite: pochi loro cittadini si reputano prima di tutto europei.
Come è possibile? La storia europea dell’ultimo mezzo secolo in genere è dipinta come una successione di passi verso un futuro comune. Ma forse per comprendere a che punto siamo si dovrebbe prendere in considerazione la storia antecedente, non a partire dal riavvicinamento franco-tedesco degli anni sessanta, ma dal modello di Europa prevalente nel decennio prima della catastrofe del 1914.
Per alcuni aspetti molto importanti, l’Europa del 1913 era di gran lunga più cosmopolita ed europea dell’Europa odierna. Le idee e le nazionalità si amalgamavano, confluivano in un focolaio di creatività. Quell’anno vide l’apice del futurismo, gli inizi dell’astrattismo con Picasso e Braque, il debutto della Sagra della primavera di Stravinskij e la pubblicazione di Dalla parte di Swann di Proust.
Le collaborazioni scientifiche valicavano agevolmente ogni confine. La struttura dell’Austria imperiale e della Francia repubblicana trovò imitatori in piccoli germogli di città in tutta l’Europa centrale e meridionale, chiamate in seguito Piccola Vienna o Piccola Parigi. Si formarono vaste comunità di cosmopoliti residenti all’estero, i “passeur” (i traghettatori) tra civiltà diverse, per lo più raffinati ebrei, ma anche minoranze tedesche sparpagliate in tutta l’Europa centrale e orientale.
In seguito, per mano dei totalitarismi, la maggior parte degli ebrei sarebbe stata sterminata e i tedeschi, come altri gruppi, rimpatriati a forza nel loro paese d’origine. In aggiunta ai loro crimini, Hitler e Stalin fecero così la loro parte nello spazzar via l’idea di cosmopolitismo così come lo aveva inteso la vecchia Europa.
Tutto ciò rende ancora più significativo il tradizionale punto di inizio della storia moderna europea – le macerie del 1945. L’impellente obbligo di ricostruire, accentuato dalla guerra fredda, unì l’Europa occidentale e collocò la Germania occidentale al centro di questo contesto. Gli europei fecero progressi in un mercato sempre più comune. Ma l’elemento unificante non era l’ottimismo: a spronare gli europei occidentali a ricomporre le loro differenze a mano a mano che si andavano palesando fu piuttosto la paura. La paura di un’altra guerra tra di loro o dell’espansione sovietica.
Dopo la caduta del Muro di Berlino, l’Europa occidentale si è allargata a est ed è parsa avvicinarsi serenamente alla Fine della Storia — con pace, benessere, sicurezza sociale, democrazia e l’euro, una moneta unica per tutti, da Helsinki in Finlandia a Siviglia in Spagna. Per i suoi oltre 400 milioni di abitanti l’Europa è diventata un parco a tema, un museo, un supermercato, il continente di EasyJet: efficiente, dinamico, aperto a tutti con poca spesa.
Adesso però l’Europa esige sacrifici e solidarietà, e si scopre in declino. Ovunque vanno guadagnando terreno populisti e nazionalisti. Si scopre che gestire l’austerity e combattere il debito non serve affatto a unire l’Europa. Forse i leader europei avrebbero dovuto svegliarsi prima, quando l’entusiasmo per l’unione dette qualche segno di cedimento già prima della crisi. Nel 2005 gli elettori francesi e olandesi bloccarono qualsiasi passo avanti in direzione di una Costituzione europea. I paesi dell’Europa centrale e orientale da poco affrancati – “l’Occidente rapito” di Milan Kundera, rovinato da 45 anni di occupazione sovietica – non hanno re-europeizzato le loro culture, le hanno globalizzate. Altrettanto dicasi delle nuove generazioni: se si esclude l’euro che hanno in tasca, i giovani europei non avvertono una presenza quotidiana dell’Europa.
Gli opinionisti, gli economisti e i politici in genere concordano sul fatto che il continente potrebbe trarre grandi vantaggi da una maggiore unione politica, dato che la globalizzazione favorisce i blocchi continentali. Ma le nazioni e i popoli europei dovrebbero rinunciare a vaste aree di sovranità, e nulla finora li ha preparati a farlo. Con le attuali tendenze, se agli europei fosse chiesto di fare uno sforzo in più per unirsi di più, rifiuterebbero.
Per questo motivo, l’Europa deve trovare una nuova idea, una nuova visione, un pezzo grosso di artiglieria per il proprio futuro. I ben noti nobili ideali non basteranno. Ormai, i diritti umani, il pluralismo, la libertà di pensiero, la socialdemocrazia del libero mercato sono già tutti contemplati dalle costituzioni delle varie nazioni. I cittadini non hanno bisogno che sia l’Unione europea ad assicurare loro tutto ciò.
Massimo di diversità
Come allacciare dunque nuovi legami sentimentali in Europa? Forse la risposta sta nel concepire un’Europa in carne e ossa, tangibile, fatta di colori, odori, folclore, forza poetica e varietà. L’obiettivo ultimo non si basa su concetti familiari – una lingua comune o una storia comune o un’ascendenza comune – quanto sul loro contrario: una comprensione e un punto di riferimento culturale sovranazionali, fondamentalmente continentali. Kundera diceva che in Europa c’è il “massimo di diversità nel minimo spazio”, concetto forse altrettanto forte ed efficace di “liberté, egalité, fraternité” o di “all men are created equal”.
Un’ideale costitutivo di questo tipo è imprescindibile per un’unione politica continentale. Potrebbe essere ottenuto tramite un corso di educazione civica europea in ogni scuola; con una maggiore enfasi sull’apprendimento delle lingue straniere; con programmi più ampi di scambio (per fasce di età e classi); con un miglioramento della mobilità; con l’unificazione dei sistemi sanitari e pensionistici europei; con l’elezione di rappresentanti europei direttamente responsabili nei confronti dei loro elettori; con un trattamento più uniforme dei lavoratori ospiti e degli immigrati.
Ecco, ora c’è veramente qualcosa su cui riflettere. François Hollande, Angela Merkel e soprattutto David Cameron: tenete a mente i “traghettatori”. Incoraggiate la creazione di un unico spazio pubblico e culturale europeo. Dateci una visione per i popoli d’Europa: fateli sognare di poter diventare un popolo solo e lasciatevi alle spalle tutti i dubbi. Se aspirate sinceramente a un’Europa politica, allora assumetevene la responsabilità con coraggio e con una visione che trascenda le prossime elezioni e il prossimo scossone economico che si incontrerà lungo il cammino. Promuovete un unione spirituale del continente, ben strutturata intorno alla sua eterogeneità.
Traduzione di Anna Bissanti
Presseurop.it