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Il Ministro De Castro affronta l’emergenza siccità

L´emergenza di questi giorni si chiama siccità e il ministro dell´Agricoltura, Paolo De Castro, è schierato in prima linea sul fronte dell´acqua che manca, soprattutto nella Pianura padana: «La situazione è drammatica – dice – perché il livello del Po è sceso sotto gli otto metri e non accadeva ormai da molti anni».
Ma l´emergenza strategica, quella delle prossime settimane, dei prossimi mesi e dei prossimi anni, si chiama invece «questione energetica» e lo stesso ministro, preposto – come recita la denominazione ufficiale – alle Politiche agricole, alimentari e forestali, con una delega speciale sull´agro-energia, si sente impegnato a trovare, insieme alle 32 associazioni che compongono questa galassia, un modo per contribuire alla soluzione del problema conciliando appunto gli interessi dell´agricoltura con la difesa dell´ambiente. E perciò De Castro, in preparazione di un «tavolo sulla bio-energia» da convocare alla ripresa autunnale, ha già aperto un confronto con tutte le categorie interessate, petrolieri compresi.
Che cosa intendete fare, innanzitutto, per combattere l´emergenza della siccità?
«C´è una prima risposta congiunturale: aprire i rubinetti dei laghi di montagna, i bacini delle centrali idro-elettriche, per mandare acqua a valle. E in questo senso stiamo sensibilizzando le Regioni settentrionali a cui spetta prendere provvedimenti per intervenire di conseguenza».
Non si rischia in questo modo di ridurre la nostra già modesta produzione energetica?
«Si tratta di fare per qualche giorno un trade-off, uno scambio di elettricità. Per fortuna, quest´inverno al Nord ha piovuto molto e nei bacini c´è acqua in abbondanza».
Ma il precedente governo di centrodestra non aveva predisposto un Piano irriguo nazionale?
«Sì, in effetti l´aveva approvato il Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica – ndr) nel 2005. E noi abbiamo completato tutta la parte burocratica e amministrativa. Sulla carta, il Piano prevede una spesa di un miliardo e 600 milioni di euro. Solo che è stato approvato senza copertura finanziaria: insomma, nelle casse del Tesoro non ci sono i fondi stanziati. È un nodo politico che bisognerà sciogliere al più presto».
Veniamo all´energia: qual è il contributo che l´agricoltura può offrire per ridurre la nostra dipendenza dall´estero e combattere l´inquinamento?
«Tra le cosiddette fonti alternative, pulite, rinnovabili, può diventare determinante in prospettiva l´apporto delle biomasse, i residui vegetali o animali dell´agricoltura e della zootecnia. Qui c´è un interesse economico immediato per le imprese agricole, in particolare nell´installazione di micro-impianti diffusi sul territorio. Mille quintali di biomasse rendono fino a 2.000 euro a ettaro, oltre tre volte più del mais o dei girasole. E su un´estensione di 250-300 ettari, un´impresa zootecnica può arrivare a produrre un megawatt di elettricità attraverso la fermentazione dei reflui degli allevamenti».

Le biomasse sono più convenienti anche dell´olio di palma o di cocco?
«Certamente, anche perché questi oli vegetali bisogna importarli dall´estero, dal Sud-est asiatico o dal Sud-America. Per noi il bilancio ambientale è basso e i certificati verdi da immettere sul mercato dell´energia se li prendono i rispettivi produttori. E poi, gli ambientalisti sostengono anche che il consumo di carburante e il conseguente l´inquinamento da parte delle navi che trasportano questi carichi superano di gran lunga i vantaggi che ne derivano sul piano energetico».
Lei come pensa di poter influire sulla produzione di bio-energia "made in Italy"?
«La mia idea è quella di promuovere su un mercato parallelo i certificati verdi "doc", a denominazione di origine controllata. Il "plus" viene collegato, appunto, alle materie prime prodotte in loco. La filiera dev´essere nazionale o al massimo europea. Altrimenti, il meccanismo non giova né all´agricoltura né all´ambiente. La finalità degli incentivi è quella di ridurre il differenziale fra il mondo agricolo e quello industriale».
Da ministro dell´Agricoltura, lei deve fare naturalmente il suo mestiere, cioè gli interessi del mondo agricolo. Ma questo non è un trattamento privilegiato, a scapito di altri settori?
«L´agricoltura è ormai il secondo comparto produttivo nazionale, dopo la meccanica. Eppure, il nostro export è ancora troppo modesto, meno del 15% del fatturato complessivo del settore. Noi possiamo e dobbiamo esportare di più. Le imprese del "made in Italy" agro-alimentare sono troppo piccole e frantumate. Prendiamo l´esempio del vino: dopo lo scossone del metanolo, l´evoluzione della tecnologia ha consentito di imporre una produzione di qualità in tutto il mondo».
Vuol dire che in questo campo non vale più la formula "piccolo è bello"?
«No, ormai non è più così. Le aziende devono assumere dimensioni compatibili con il mercato globale. Dal vino all´olio extra vergine d´oliva, dai formaggi di qualità all´aceto balsamico, non mi riferisco a nicchie di mercato. Per l´industria agro-alimentare italiana, la sfida è quella di diventare più forte all´estero, di conquistare i mercati stranieri. Ma per raggiungere l´obiettivo occorrono cultura d´impresa, capacità organizzativa, attività di marketing, in modo da cooperare e non contrapporsi alla grande distribuzione».