Voglia di rivoluzione per l’agricoltura europea
L’imminente riforma della Politica agricola comune dovrebbe garantire maggiore equità ed efficienza, ma le lobby stanno cercando di affossarla. I cittadini devono sostenere il Parlamento europeo in questa battaglia.
La speranza di un’agricoltura europea più attenta all’ambiente e quindi giusta, tanto per chi paga le tasse quanto per chi produce in maniera sostenibile, ha appena subito una bella frenata. Mentre in Italia tengono banco le campagne elettorali, a Bruxelles ieri l’altro c’è stato un passo determinante nella lunga e complessa procedura che ci consegnerà, dal 2014, la nuova Politica Agricola Comune: per i più quell’oggetto misterioso che si indica con l’acronimo PAC, ma che rappresenta lo strumento con cui si deciderà il futuro del nostro cibo.
È molto difficile spiegare a un profano cosa sta succedendo, ma è fondamentale provarci. Da 50 anni la PAC impegna quasi la metà del budget europeo, i nostri soldi. La sua riforma è l’occasione per un cambio di paradigma, verso un’agricoltura meno orientata al produttivismo e più rispettosa dei territori, delle risorse naturali, di molti agricoltori e dei cittadini. Fin’ora si erano favorite pratiche agricole deleterie per la fertilità dei terreni, l’ambiente, il paesaggio, il ricambio generazionale e la biodiversità, profondamente inique nei confronti dei Paesi terzi più poveri. Così gli europei si sono trovati, molto inconsapevolmente, a sostenere un sistema produttivo malsano e per cui alla fine pagano due volte: non solo attraverso le sovvenzioni, ma anche per poi aggiustare i suoi danni, dalla salute alla sicurezza dei territori, dalla qualità di acqua, aria e terreni a quella del cibo. La vecchia PAC è stata un disastro.
La Commissione agricoltura e sviluppo rurale del Parlamento Europeo, secondo il lungo e complesso iter legislativo europeo, il 23 e 24 gennaio ha votato gli emendamenti alla proposta di riforma della PAC presentata già più di un anno fa. Ha deciso di bloccare, impoverire o cancellare la maggior parte delle misure volte a rendere più sostenibile il nostro sistema di produzione del cibo. Già la proposta su cui si sono espressi non era il massimo, ma almeno poteva sembrare un buon compromesso, introducendo importanti elementi di novità. La palla ora passerà ai Governi che a febbraio dovranno stabilire il nuovo budget dedicato alla PAC (un probabile consistente taglio non farebbe che peggiorare la situazione) e soprattutto al Parlamento, che in seduta plenaria a marzo avrà ancora la possibilità di correggere la brutta rotta su cui ci siamo instradati.
Ad esempio ci sarebbe la possibilità di introdurre quelle misure che sono state chiamate greening, di “inverdimento”, dedicate all’ambiente. La parte più grossa della torta dei soldi PAC è sempre stata in gran parte determinata dalla dimensione della superficie aziendale. Negli anni ha finito con il premiare le aziende più vaste, quelle che mediamente non brillano per attenzione alla sostenibilità: una bella rendita catastale per l’agro-industria, detto in parole molto povere. Il greening invece, nella proposta di riforma, sarebbe nel suo piccolo qualcosa di rivoluzionario: costringerebbe anche le grandi e grandissime aziende a mettere in atto pratiche sostenibili, come la rotazione delle colture, il mantenimento dei pascoli e di aree con funzione ecologica.
Invece con gli emendamenti votati l’altro ieri hanno reso «flessibile» il greening: in pratica l’hanno smontato pezzo per pezzo e hanno ideato così tante scappatoie per esserne esentati da renderlo inutile.
Hanno trasformato il greening in un greenwashing: una bella ripulita, soltanto di facciata. Con le nuove norme l’82% delle aziende europee sarebbe esentata da queste buone pratiche ambientali obbligatorie. Inoltre, se era giusto che le aziende certificate biologiche rientrassero automaticamente tra i “virtuosi”, altrettanto non lo diventa nel momento in cui si sostiene che anche altre pratiche “pulite”, ma meno, siano equiparabili al biologico per avere diritto alle sovvenzioni. Insomma, chi s’impegna di più per la sostenibilità è trattato come chi s’impegna un po’ meno o quasi niente.
Ci sono molti altri punti critici. Senza scendere in particolari e per citarne solo alcuni, si tratta della possibilità di ricevere doppi pagamenti per un unico tipo di misura ambientale (un’altra scorciatoia, per di più incostituzionale) o il fatto che l’obbligo di riservare il 7% della superficie aziendale ad aree con funzione ecologica sia sceso a un molto significativo 3%. Troppi elementi negativi che controbilanciano il poco di buono che si è salvato, come qualche risorsa in più per i giovani che iniziano l’attività agricola, l’introduzione di un tetto massimo di 300.000 Euro di sovvenzioni per i grandissimi proprietari terrieri (la Regina d’Inghilterra percepiva 8 milioni di Euro all’anno, per fare un nome molto noto) oppure una più corretta definizione di “agricoltore attivo”, per evitare che godano di finanziamenti anche soggetti come aeroporti o golf club, che certo non fanno agricoltura.
Ora, dicevamo, sempre che la proposta di riforma non venga definitivamente smembrata dalle decisioni sul budget che si prenderanno a febbraio, il Parlamento Europeo dall’11 al 14 marzo avrà la grande e storica opportunità di invertire la rotta. Per la prima volta da che esiste l’Unione Europea il Parlamento potrà intervenire in questa negoziazione e quindi dobbiamo far leva sui nostri deputati perché non facciano l’errore di sostenere quel vecchio paradigma che ha soltanto premiato chi produce peggio, e non certo nell’interesse collettivo. Non è giusto impiegare risorse pubbliche per favorire l’interesse di pochi. È partita una mobilitazione europea, a cui aderisce anche Slow Food, sotto il simpatico nome di “Go M.A.D.”. Con questo strumento possiamo contattare i nostri parlamentari e spiegargli quanto sarà importante l’assemblea di marzo, che non si facciano influenzare dalle lobbies dell’agro-industria. I cittadini possono diventare protagonisti e sarà fondamentale partecipare, prima che sia troppo tardi. Ne va del futuro del cibo, dei luoghi che abitiamo, del nostro benessere.
Fonte: Carlo Petrini – La Repubblica